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Namastè

NAMASTÈ – 2 giugno 2024

Festa del Corpus Domini

VANGELO

Dal Vangelo secondo Marco – Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

RIFLESSIONE

Namastè! È una parola dal sanscrito indù, resa a noi famosa dallo yoga, e significa: “onoro la luce divina che ti avvolge”.

Questo saluto sacro, pronunciato con voce gentile, è accompagnato da una gestualità simbolica (detta “mudra”): si mettono le mani giunte, si chiudono gli occhi, si apre un sorriso e si fa un inchino col capo.

Le mani giunte indicano umiltà, affidamento, gratitudine: la radice “namas” indica “niente è mio, tutto è dono”.

Gli occhi chiusi chiedono di lasciar perdere presunzioni, rimpianti, rimorsi, mancanze, errori per vedere l’invisibile.

Il sorriso è perché ognuno ha un carattere e un modo proprio e quindi tu rischiari me e io posso aiutare te a capire altro.

L’inchino rappresenta la mente che si abbassa davanti al cuore, scegliendo di dare più importanza all’anima che ai giudizi, più alla sensibilità che al voler avere ragione a tutti i costi.

Gli indù utilizzano namastè per salutare quando si arriva o si parte, per dire “per favore” o “grazie” o “permesso” e il tono gentile sottolinea che non solo le persone ma anche luoghi e occasioni sono avvolti di luce divina.

La saggezza orientale ci affascina, ma mi meraviglia che cerchiamo lontano quanto abbiamo dimenticato di avere letteralmente a portata di mano nel fare la comunione: il sapore della presenza di Dio che namasté fa desiderare noi lo mangiamo nel pezzo di pane dell’ostia santa. Forse non lo gustiamo perché lo diamo troppo per scontato.

Gesù sapendo come siamo distratti, ingolfati, stropicciati, ha deciso non di girarci intorno ma di entrarci dentro.

Un giorno Dio decise di giocare a nascondino con il mondo. Pensò di mettersi in fondo a una grotta buia su una vetta alta, o in una galassia inesplorata o dietro la barriera corallina, poi ebbe un’intuizione: “Mi nasconderò nel cuore dell’uomo: sarà sicuramente l’ultimo posto in cui verrà a cercarmi”.

Fare la comunione mi rende tabernacolo vivente che porta Gesù fuori di Chiesa, per strada, nei luoghi comuni come celebra la processione del Corpus Domini.

Fare la comunione in chiesa fa vivere in comunione fuori. Siamo abili a fare sistema e rete, ma non a fare comunione: ci è dura passare dai Like all’Amen (dice Papa Francesco).

Fare la comunione dona rinnovata autocoscienza e autostima simboleggiata dagli stessi identici gesti del namasté:

– l’inchino della testa avvicina i pensieri al cuore onorando il valore di sé e la preziosità degli altri;

– le mani giunte uniscono pezzi sparsi di storie insegnando a pensare alla realtà come se fosse un altare;

– gli occhi chiusi aiutano a decantare parole, fatti, sensazioni e a centellinare il bello (ed è la dinamica della preghiera);

– le labbra nutrite di grazia poi fanno sbocciare sorrisi;

– la gentilezza è l’effetto desiderato del vivere in comunione.

Il mistero della presenza reale di Gesù nel pane eucaristico, il dono del corpo di Cristo nelle mani, facendoci comprendere che siamo tabernacoli viventi, ci fa fare “tana” al Dio “nascosto” e sollecitati dal namastè diciamo: “Amen! Ci sto! Così sia!”.