RIACCENDERSI
27 ottobre 2024 – 30ma domenica del Tempo Ordinario B
VANGELO
Dal Vangelo secondo Marco – In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Maestro, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
RIFLESSIONE
“Le persone sono come le vetrate colorate delle chiese. Quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce all’interno” (Elizabeth Kübler Ross).
Tutti ci troviamo a lottare dentro il nero e con il nero dentro. Non è facile trovare come accendere la luce interiore.
Anche noi siamo come il cieco del Vangelo prigionieri del nero in mezzo ad un vortice di indifferenza, seduti ai bordi del quotidiano bloccati, accasciati, sfiniti.
Anche noi siamo come il cieco del Vangelo con le tenebre nel cuore: sono le pene, il dolore, le angosce, le frustrazioni, le ferite, i fallimenti che ci debilitano.
Anche noi siamo come il cieco del Vangelo con il buio nell’anima, senza speranza, senza più gusto, con la mano tesa a mendicare attenzioni e approvazione.
Qualcuno ti dice che c’è Dio. Tu che fai? Gridi per attirare la sua attenzione? Oppure lo lasci perdere?
Se lo interpelli, lui ti chiede: “Cosa vuoi che io ti faccia?”. Sembra proprio una presa in giro. Invece è una delle domande più difficili a cui rispondere. Io so cosa voglio veramente? So quale è il mio bene?
Anche la risposta del cieco sembra ovvia, ma nasconde una scelta coraggiosa: “Che io veda in modo nuovo!”.
Ma ci rendiamo conto quanto è impegnativo rispondere a Dio: dammi i tuoi occhi, fammi guardare la realtà come la vedi tu.
Quanta responsabilità comporta aprire gli occhi?!
Non è forse meglio stare nella mediocrità opaca della nebbia? Occhio non vede, cuore non duole, si dice.
Impegnative sono le due condizioni che il cieco indica.
La prima è il coraggio di buttar via il mantello che ci avvolge. Per un povero era la sua certezza, era protezione e sicurezza, era la sua casa, era tenda che dona ombra nel caldo afoso e coperta di notte nell’umidità del deserto che penetra le ossa.
La seconda è il coraggio di camminare a tentoni. È il cieco che va da Gesù, non Gesù dal cieco. Rischia, può cadere, annaspa, non sa dove andare. Ma va.
La fede è ritrovare su se stessi uno sguardo che genera. È accendere una luce dentro l’oscurità.
Eleanor Roosevelt ripeteva: “È meglio accendere una luce – anche se fioca o incerta – che stare a maledire l’oscurità”.
In questi giorni ricordiamo tutti i santi senza nicchia, tutti i giusti che hanno lasciato una scia, tutti i nostri morti che sono in paradiso e vegliano su di noi. Nel buio della morte brillano per la loro luce interiore. Guardando in alto, come verso delle vetrate, possiamo gustare ancora la loro bellezza luminosa e colorata. Ma chiediamoci: loro dal cielo che vita accesa vedono in noi? Abbiamo custodito la scintilla dei loro valori?
I nostri cari ci insegnano che la morte non è triste ma è seria: il loro “al di là” ci fa prendere sul serio il nostro “al di qua”.